Diverbio immaginario sull’aereo svedese*

*Lo so, tecnicamente sarebbe un aereo turco in Svezia…

Elin Ersson sull'aereo mentre manifesta contro l'espulsione di un Afgano dalla Svezia

Fotogramma dal video FB di Elin Ersson

Questa studentessa, che risponde al nome di Elin Ersson, è diventata famosa per aver inscenato una protesta contro l’espulsione di un Afgano dalla Svezia: si è imbarcata sull’aereo di linea con cui lo stavano facendo uscire dal paese e si è rifiutata di sedersi al proprio posto impedendo il decollo, registrando anzi la sua protesta in un bel video Facebook, immediatamente diventato virale.
Deve essersi sentita super-orgogliosa della bravata, mentre documentava con le lacrime agli occhi la sua vittoria: le autorità dell’aeroporto di Goteborg avevano ceduto e fatto scendere dall’aereo l’uomo.
Eppure siamo nel 2018: i giovani della sua età non hanno memoria del mondo prima dell’undicisettembre. Oggi viaggiare in aereo significa passare attraverso mille regole e controlli. Si viene buttati fuori dall’aereo, e poi puniti severamente, per cose da nulla. Nonostante ciò la sua scenata ha avuto successo, anche se va detto che è stata fatta scendere anche lei, logicamente.
Qui trovate una versione alternativa della vicenda: come avrebbe dovuto andare secondo me.

 

(Inizio registrazione da cellulare)

“Stanno cercando di togliermi il telefono di mano… stanno deportando quest’uomo verso l’Afghanistan, dove c’è la guerra e verrà ucciso.”

Si sentono molte voci indistinte tutt’attorno. La ripresa traballante ci restituisce l’immagine di alcune file di sedili, l’interno di un aereo di linea pieno di passeggeri.
Prosegue la protagonista: “Mi hanno spinta e hanno cercato di spostarmi con la forza… Non mi siederò finché questa persona non sarà scesa dall’aereo. Perché molto probabilmente verrebbe ucciso.”

Qualcuno cerca di dissuaderla, visto che sta ritardando la partenza.
“Sto facendo il possibile per salvare la vita di una persona! Sono davvero in pena per un uomo che viene mandato a morire, e voi siete più preoccupati di perdere la coincidenza!”

Singhiozza. Una lacrimuccia comincia a formarsi all’angolo dell’occhio.

Si sente uno steward che la implora insistentemente: “Per favore signorina, si sieda.”

“No, no! Lo uccideranno!”

“Ma come può dirlo?”

“Perché è l’Afghanistan!”

Un momento di silenzio.
Improvvisamente una voce potente si alza da qualche fila più indietro.

“Oh-oh. E mi dica, signorina so-tutto-io…”

Un uomo dimesso, già mezzo calvo, verso la cinquantina. La sua barbetta biondiccia incolta e la pancetta contrastano singolarmente con il completo elegante che indossa. Non ha la cravatta e parla senza accenti. La nostra Elin dal suo punto di vista vede: un uomo bianco.

“Com’è che dovrebbe morire esattamente?”

La ragazza gli urla contro, in un misto di rabbia e di sorpresa: “C’è la guerra! Capisci g-u-e-r-r-a?”

“No, evidentemente. Prego, mi illumini.”

La sua voce è calma e controllata, ma in qualche modo ne viene fuori un messaggio chiaro e potente. L’intero aereo assiste incantato.

“Chi è lei? Non ho tempo per i trucchetti. Qui parliamo di umanità, lo vuole capire?”

“Beh, pare che grazie a lei avremo tutto il tempo che ci serve. Conosce quest’uomo?”

“Certo che no. Non è questo che conta: sto affermando un principio.”

“Ma per quello che ne sa potrebbe essere un criminale.”

“No che non lo è…,” protesta. Ma ora la sua voce suona incerta, lamentosa come quella di una ragazzina capricciosa.

“Quindi non lo sa.”

“Ma che differenza fa? Anche i criminali hanno diritti!”

Una signora anziana si inserisce quasi contemporaneamente: “Ma… Non prova pena per quest’uomo?”

“Ma certo che mi dispiace. E magari è un tizio a posto. Come dite voi? Restiamo umani. Ma dobbiamo anche essere realistici. Non tutto si può fare.
Questa ragazza ha appena ammesso che sta prendendo le parti di uno sconosciuto, che in guerra potrebbe essere la vittima quanto l’oppressore. Magari le autorità hanno le loro ragioni per espellerlo, eh?”

“Basta con queste scuse razziste! La nostra società è più avanti dei vostri egoismi.”

Spazientito ma sempre controllato, passa a darle del tu: “Seeh vabbè. Ma non mi hai ancora spiegato come funzionerebbe la storia della guerra. Chi lo dovrebbe uccidere? Un altro Afgano?”

“Beh, sì, magari.”

In altri termini vuoi proteggerlo tenendolo il più distante possibile dagli altri Afgani. Sembra tu sia convinta che un posto pieno di Afgani è troppo pericoloso. Magari è proprio per questo che non vogliamo riempirne la Svezia!”

Partono le reazioni scomposte, diverse persone vogliono intervenire. Viene apostrofato come xenofobo e razzista, molti si limitano a fare rumore. I più però preferiscono rimanere in silenzio, evitando di schierarsi. Anche l’Afgano se ne sta buono buono tutto il tempo senza dire nulla.

La coraggiosa Elin ha finito la pazienza. “Non voglio avere niente a che fare con un odioso razzista come te!”, si sfoga.

Un signore distinto dietro di lei -pare un professore- si alza ed urla: “Non è così! L’Afghanistan è zona di guerra, la Svezia no. Possiamo integrare le persone. Dovrebbe vergognarsi di quello che ha detto!”
Dagli spalti i tifosi applaudono.
E prosegue: “Oltretutto la guerra in Afghanistan l’hanno voluta gli Americani!”

La giovane attivista sembra riaversi: “Verissimo! Ascoltate gente: se va in Afghanistan può essere ucciso dagli Americani!”

 

“O-K. Vediamo di fare un po’ d’ordine nei discorsi. Prima di tutto la guerra per noi è solo un  ricordo distante, invece per gli Afgani è la normalità, parte integrante della vita. Non sto dando la colpa a nessuno e sarebbe bello poter aiutare tutti. Ma non potete cambiare la cultura di un popolo. Qui non c’entra niente la razza. E’ un problema di cultura.”
L’ometto ormai è un treno in corsa. Nessuna protesta da parte della giovane potrebbe stoppare il suo ragionamento.
“E’ la GUERRA!” gli sibila contro a denti stretti, gemendo come un animale ferito.

“Vuoi sapere, ragazza, come funziona la guerra laggiù?
Vero, potresti venire ucciso dalle truppe americane su qualche montagna dimenticata. Ma solo se sei parte di un gruppo islamista.
Altrimenti, se sei un civile, potresti morire in un attentato terroristico. Tipo un mercato od una moschea che fanno boom!
Eccotela la guerra. Questa è la guerra di oggi.
C’è dunque differenza tra Kabul e Stoccolma oppure Londra? Viviamo ormai tutti in zona di guerra. Hanno voluto che fosse così.
La sola cosa che cambia è: quanti?”
Davanti a lui uno steward prova ad aprire la bocca, ma non ne esce alcun suono. Come un pesce in un acquario.
Elin, furibonda, ormai gli volta la schiena come ad ignorarlo; ha spostato il telefono che ora registra solo suoni confusi.

Il nostro prosegue: “Quanti terroristi in mezzo alla popolazione? Quanti attacchi all’anno? Quante vittime? E’ tutto strettamente correlato.
Se quest’uomo viene spedito al suo paese corre un piccolo rischio di essere ucciso. Se fosse rimasto qui il rischio sarebbe stato minuscolo. E’ solo un discorso di quantità.
Vuoi salvare gli Afgani da sé stessi, ma al massimo puoi ottenere di importare migliaia di estranei che non sei in grado di integrare, finendo per OBLITERARE la differenza tra là e qua!
Ha appena sputato fuori la parola obliterare scandendola con foga, quasi riproducendo il suono di una vecchia macchina da scrivere. Ora tutti tacciono.

“A quel punto sì che gli attentati saranno una cosa di tutti i giorni anche qui. Ma non avrai più un posto in cui scappare. Tutto sarà finalmente integrato!

Ah, a proposito. Prima che ci andassero gli Americani, l’Afghanistan era sotto il controllo dei Talebani.
Se va bene… beh, tra poco, quando i soldati occidentali se ne andranno, sarà di nuovo in mano loro. Prima di dare la colpa di tutto agli apertevirgolette Imperialisti Americani chiusevirgolette, potresti riflettere sulle piacevolezze del vivere sotto la Sharia. Sai, tu che sei donna potresti provare: nessuna scuola, nessun lavoro per te. Nemmeno la musica ti lascerebbero.

Cammineresti per strada dentro un comodo burqa, rigorosamente solo se accompagnata da un parente maschio.

Il tizio si siede. Il volto non tradisce più emozioni.

Nel frattempo un paio di guardie della sicurezza aeroportuale sono salite sull’aereo, ignorate da tutti.
Si avvicinano alla ragazza. Si rifiuta di collaborare.

(La registrazione del telefonino si interrompe bruscamente.)

La portano fuori, ammanettata.
(Reazioni varie. Applausi, buu, fischi.)

 

Aggiornamento

Ora risulta, come previsto, che l’uomo che voleva “salvare” era già stato in carcere per aggressione, oltre ovviamente a non esser risultato idoneo per l’asilo politico.
La ragazza non sapeva chi fosse, infatti era salita sull’aereo con l’idea di liberare un altro Afgano, che però non si trovava lì; a quel punto ha scelto di fare la scena madre a favore dell’unica possibile “vittima” presente, come ripiego.
Dopotutto secondo la sciocca religione del non discriminare mai, le persone devono considerarsi intercambiabili…

 

Addendum, 8 aprile 2019

Non ci possiamo sorprendere: questo tipo di comportamento, elogiato dai soliti media invece di ricevere dure reprimende, si sta diffondendo.

Qui potete trovare l’ultimo esempio della follia buonista: una donna esprime la sua rabbia per i passeggeri di un aereo che hanno “salvato” dalla deportazione lo stupratore che le ha rovinato la vita.

Però bisogna aggiungere: parte del problema risiede proprio nel tipo di punizione che non è una punizione.
Riconosciuto colpevole di stupro, ti mandano via su di un aereo passeggeri, come fossi un viaggiatore qualunque, anche se per un viaggio di sola andata (e lo sarà di sola andata?)

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