XIII DOMENICA DEL TEMPO ORDINARIO – ANNO A
Il primo tema del giorno è l’accoglienza.
Questa famiglia della Prima Lettura fa di tutto per ospitare il profeta Eliseo.
E Gesù nel Vangelo loda, tra gli altri, chi “accoglie un profeta perché è un profeta”.
La generosità infatti non si realizza nel farsi toccare il cuore dalle storie più atrocemente disperate degli ultimi più ultimi, che riescano, grazie alla loro drammaticità, a vincere le nostre coscienze, intorpidite per egoistica difesa, desensibilizzate da mille richieste, abituati come siamo a passare oltre.
No, la generosità è tranquilla, operosa, spontanea, non vive il peso. Compiaciuta anche nel donare ad un ospite illustre, come può essere un uomo di Dio.
E poi, certo, donare anche e prioritariamente a chi ha bisogni gravi o urgenti… ma notiamo come Gesù qui non parli di gente che muore di sete o fame.
No, fai il piccolo gesto di dare da bere, ed è un’occasione di sentirsi bene assieme, uniti dalla gentilezza, dall’essere semplicemente fratelli…
Ce n’è per tutti
Senza compiere l’impresa, senza necessariamente essere eroi.
Magari un po’ di sete il beneficato in quel momento l’aveva (e nel clima della Palestina poi…) Magari invece hai dato un bicchiere ad uno di questi piccoli fratelli, che ha bevuto quasi più per farti contento che per reale necessità di dissetarsi.
Tutto è grazia, anche il vino pessimo o l’improbabile liquore all’anice offerti a casa degli anziani vicini.
Conta il viaggio, il gesto che unisce, e non la destinazione, il bisogno concreto.
Poi però, sì, la donazione può assumere anche livelli eroici, drammatici.
Gesù infatti:
Chi avrà tenuto per sé la propria vita, la perderà, e chi avrà perduto la propria vita per causa mia, la troverà.
O che? Basta dunque che io offra un bicchiere d’acqua, o mi tocca farmi sgozzare in odium fidei, come martire?
Non ci sarebbe magari una via di mezzo? E il pensiero torna ai 50 anni da orsacchiotto di Massimo Troisi… (se non conoscete il riferimento, lasciate stare, non ha importanza.)
Al solito, ti spiazza
Oltretutto torna il tema della volta scorsa, il fatto che Gesù crea divisione fin dentro alle famiglie: non bisogna affatto evitare il conflitto. A volte tocca scegliere tra Dio e la propria famiglia: ed ecco, bisogna scegliere Dio. Per duro che sia.
Dite la verità, che ad ascoltarlo o leggerlo non ci avete fatto caso, ma è uno strano elenco: mette assieme
– lacerarsi interiormente per essersi dovuti mettere contro le persone più care;
– perdere la vita;
– accogliere ed ospitare un uomo di Dio;
– offrire un bicchiere d’acqua.
E’ come se in una lista della spesa trovassimo una balenottera azzurra intera ben frollata, un mammuth (ma mi raccomando, che sia fresco), un pollo arrosto di rosticceria ed una caramella.
Sembra sproporzionato.
Mi piace pensare che Gesù sia partito dagli obiettivi più alti ed ambiziosi, abbia visto le facce sbigottite dei presenti, e abbia dirottato verso cose più abbordabili, per incoraggiarli a trovare qualcosa di fattibile per tutti, senza scappare dalla paura.
La proposta forte
Perché questi livelli così diversi, che comprendono richieste tanto dure?
Forse perché la vita è dura comunque, tanto vale che -chi ce la fa- dimostri che la partita più importante (e difficile) vale la pena giocarla per la gloria di Dio e non per una disputa sanguinosa tra popoli confinanti, o per accumulare soldi e farsi la villa con piscina.
Inoltre è gretto e triste volersi limitare, considerare la fede come un’incombenza extra, da soddisfare attraverso qualche passaggio formale (una preghiera, un rito, una dichiarazione: tipo i protestanti, ancora una volta, scusate se insisto), e poi tolto il pensiero, tornare alla vita di prima: quindi no, ci vuole l’obiettivo più grande, forse irrealizzabile. Giocarsi tutto, donare tutto, pensare ad essere eroi, santi e martiri.
Ma ci sta anche tutto il resto;
Dio non ci chiede solo il massimo, gli basta anche poco! Questa è la cosa straordinaria: gli basta poco, e anche per un piccolo gesto c’è la ricompensa.
Perché l’amore funziona così! L’amore funziona così!
Non si limita, ma neanche pretende. Nello stare assieme, uniti, ci sta anche essere piccoli, non avere fatto niente di che.
L’importante è essere buoni. Beati i miti, beati i puri di cuore.
Ecco, vedete? Abbiamo fatto tutto il giro e siamo tornati al punto di partenza.
Sono stato motivato a scrivere questi articoli dall’osservazione che tante prediche si riducono al pistolotto moraleggiante generico, un “siate buoni”, ed alla fine eccomi qua, a dire più o meno la stessa cosa…
Ma pur con tutti i miei limiti, spero di aver trasmesso una cosa: il problema non era il fatto che i predicatori in genere trattassero del cercare di essere più buoni, ma che ne parlassero stancamente, come di una cosa scontata. Con l’imbarazzo di chi forse non pensa di poter credere veramente alla propria retorica.
Spero di aver portato una proposta che nel mio piccolo trasmetta una freschezza, una prospettiva diversa.
La bontà, dunque.
Volere il bene degli altri. Perché nessuno è buono, a parte Dio (Mt 19,17). Ma si può cercare di voler bene, di più.
Si può forse anche imparare, sforzandosi, a diventare un po’ quello che a Genova si chiama bonellan: un ingenuotto che sembra sempre disposto a trattare tutti come se fossero persone care, noncurante di quel che fanno alle sue spalle.
Qui, nell’accogliere e dare da bere, si misura un essere assieme che, dal piano fisico, concreto dell’Eucaristia, di cui abbiamo parlato recentemente, passa invece ad una interazione fatta di idee, parole, gesti.
Però la divinità presente nell’Ostia non la vedi proprio, invece la Comunione dello stare bene con i fratelli la tocchi con mano.
Ecco, stare bene: smettiamo di vedere l’altruismo solo dal lato della fatica, godiamoci la bontà.
L’angolo escatologico.
Nella seconda lettura la prospettiva è un po’ differente, ma il collegamento c’è: nella figura di Adamo si riassume il male dell’uomo, che inevitabilmente cade, ma Gesù interviene a liberare gli uomini dal peccato e quindi dalla morte.
Misterioso, questo sacrificio che cambia la natura delle cose; tante riflessioni ed implicazioni. Ma qui mi interessa sottolineare la dimensione di condivisione.
C’è un destino comune che viene rovesciato dall’amore di Gesù, che prende su di sé le nostre colpe, come un capro espiatorio. E come facciamo ad essere noi giustificati, da una cosa che invece sta facendo lui?!?
Superando i limiti della nostra individualità.
Come eravamo tutti assieme nella stessa barca di questa vita, uniti dai nostri limiti, molto più saremo uniti a Gesù, e quindi tra di noi, partecipando del bene donato.
Il bene si comunica, si trasmette, persino più del male.
Nell’unione il bene si costruisce tutti assieme, quindi si gode tutti assieme, senza antipatici limiti per chi ha “fatto poco”.
Allo stesso tempo però aver fatto di più è una grande ricchezza (se lo capiamo, non c’è senso a chiedersi se tanto valeva sbattersi un po’ di meno). Anche se non sappiamo visualizzare questa costruzione del Paradiso, questa dimensione dove tutto conta, e quindi l’investire la nostra vita sul fare di più dovremo farlo sulla fiducia.
Ma c’è una cosa da cui non si sfugge: scegliere il lato del bene. Anche facendo poco, ma puntando verso Dio. Non possiamo andare in Paradiso di malavoglia, o nonostante i nostri rifiuti. Siamo liberi, letteralmente, di andarcene all’Inferno.
E dunque, per partecipare alla Comunione futura, abbiamo bisogno di imparare e scegliere, pur in maniera imperfetta, l’orientamento della nostra vita e del nostro essere: per l’amore dei fratelli, per desiderare di stare sempre assieme, con Dio.
Per questo ogni gesto, anche piccolo, ci può portare verso il superare i nostri limiti, di egoismo individualista: pensando invece a diventare parte di una specie di famiglia, ma deppiù, morto deppiù, come dicono a Roma.
Il bene che facciamo al prossimo segna e definisce ciò che siamo, e ci proietta nella dimensione futura promessa.
Conclusione
E come concludo ora? Oplà, ho concluso.