Pseudo-Omelie 14 – Pentecoste e Dono delle Lingue

Sono andato a ripescare un libro che lessi tanti anni fa e che mi era rimasto molto impresso: A piedi nella foresta del Borneo (diario di un viaggiatore solitario), di Eric Hansen. Dopo vi spiego anche il perché, e cosa c’entra con questa festività.

DOMENICA DI PENTECOSTE – MESSA DEL GIORNO (ANNO A)

Anche quest’anno si chiude il Tempo di Pasqua e, presi dalla routine e dal tema principale, rischiamo di perdere di vista gli aspetti solo apparentemente secondari di questa celebrazione di Pentecoste.
E per questo mi ci metto io, a piazzare i puntini sulle i.

Il Vangelo in particolare ci mostra un Gesù che arriva a porte chiuse e dona lo Spirito Santo. Che poi in seguito, secondo gli Atti, discende per conto proprio, con grande fragore, sostanzialmente sullo stesso gruppo di persone, gli Apostoli. O forse non esattamente lo stesso? In questo caso l’episodio arriva sì subito dopo aver parlato nel capitolo 1 degli Apostoli, di nuovo dodici dopo la sostituzione di Giuda… ma poco prima, al versetto 14 era stata nominata anche Maria, che faceva parte del gruppo che, assieme agli apostoli stessi, era assiduo nella preghiera; includeva anche alcune donne non meglio specificate, e i “fratelli” di Gesù.
Ora, per favore non facciamo deviare il discorso sulla storia dei parenti di Gesù, chiamati fratelli per varie ragioni (si usava chiamare con la stessa parola anche i cugini) e su cui si sono buttati a pesce i Protestanti per sostenere di avere lì la prova che Maria avrebbe avuto una famiglia come tante, figliando a tutto spiano… Ne parleremo magari un’altra volta.
Ma voglio sottolineare un primo punto:

-Il nucleo della Chiesa è fatto da famiglie. La dimensione familiare è fondante, irrinunciabile.

Infatti abbiamo sì persone scelte (anche se a volte imparentate tra loro), ma accanto a loro si trovano, in questo primo gruppo, alcuni parenti stretti, dato che non vengono nominati altri uomini che non fossero di famiglia, e le donne di conseguenza non possono che essere madri, sorelle, (mogli?) e forse figlie… altrimenti non si capirebbe che facessero lì.

Sempre al capitolo 1, al versetto successivo Pietro parla a circa 120 persone.

Quindi abbiamo il gruppo stabile degli Apostoli con le famiglie, poi il testo parla di 120 presenti, poi di nuovo degli Apostoli, ed ecco che passa a raccontare l’evento di Pentecoste, dove lo Spirito scende su “tutti” (!).
Chi sono questi tutti?

È davvero ragionevole l’interpretazione della Chiesa, che non considera i 120 del discorso di Pietro, che è un evento a sé, ma invece considera il gruppo che stava assiduamente con gli Apostoli in quei giorni: inclusa la Madonna. E anche se trovo bella ed opportuna la tradizione che mette Maria accanto e prima degli Apostoli in questa situazione, in posizione privilegiata, non posso fare a meno di notare che lo Spirito deve essere sceso anche sul resto del gruppo: fratelli e donne.

Ignoto portoghese, scena della Pentecoste con Maria al centro

Ignoto portoghese, Pentecoste, 1520 ca. (CC BY-SA 4.0, Sailko)

 

Racconti alternativi?

È chiara la tentazione dello scettico un tanto al chilo, mi pare di sentirli:
“…la discesa dello Spirito non significa niente, è una sorta di atto dovuto, e se ci sono particolari scenici sorprendenti, presunti miracoli, beh, non dobbiamo neanche commentare l’attendibilità. Ma notate: in queste due letture vengono portate alla nostra attenzione due diverse tradizioni sulla discesa dello Spirito, evidentemente alternative. In pratica, si annullerebbero a vicenda, col solo dimostrare, già con la loro esistenza, una fluidità della storia che si voleva raccontare, confusamente: persone influenti differenti piazzavano l’evento desiderato, la discesa dello Spirito, in punti diversi della storia.”

Al contrario, il semplice realismo è l’antidoto rispetto al semplicismo di chi studia in poche righe, e quindi può liquidare con superficialità, ciò che per i diretti interessati occupava anni di vita.
Laddove un’economia mentale, o meglio una tirchieria, fa risparmiare eventi e dà per scontato che lo Spirito debba discendere una volta per tutte, la vita della Chiesa è normalmente segnata da molteplici doni, continui quasi: lo Spirito discende anche nella quotidianità, pur se discretamente; già in un’altra occasione avevo rimarcato quanto la comunità primitiva avesse familiarità con Dio nel contatto dei Sacramenti, proprio come la Chiesa di oggi.
Dopotutto i due eventi raccontati oggi non hanno nulla di alternativo, e sono anzi decisamente complementari.
In un caso abbiamo una protochiesa, dove ci sono tutti. E tutti danno (miracolosamente) la propria testimonianza, parlando a gente proveniente da tutto il mondo. Anche sul piano simbolico è molto bello, no?

-Tutti siamo chiamati a predicare, e portare l’annuncio a tutti i popoli.

 

Nell’altro caso il gruppo è più ristretto: si tratta degli Apostoli. Da notare la difficoltà: il Vangelo di Giovanni li chiama discepoli (mathités), che è un termine generico che in altri casi indicherebbe anche altre persone che semplicemente seguono Gesù come maestro. Ma dal contesto (sono dispersi, isolati per paura dei Giudei, ridotti al lumicino come gruppo) e dal fatto che subito dopo racconta di Tommaso, uno dei Dodici che al primo incontro non era presente, si capisce che sta parlando specificamente del gruppo, tutto speciale, degli apostoli. Semplicemente, Giovanni non usa la parola apostolo per designarli (compare una sola volta in tutto il Vangelo, e nel suo senso proprio, di inviato). Lo abbiamo detto, no, che è questione complicata?
Detto ciò, qui lo Spirito Santo è donato in altro modo e con ben altro incarico.
Gli Apostoli hanno anzi un compito gravoso: amministrare la giustizia di Dio, per la piccola parte che li compete: perdonare le persone a nome di Gesù stesso! E, attenzione, non si tratta di una banale esortazione: parte dell’incarico è dare loro, come dice il Maestro esplicitamente, anche il potere speculare: di NON perdonare persone che, per questo motivo (!), rimarranno non perdonate…

Ecco: un potere, un incarico, una difficoltà. L’azione di Dio che sceglie di passare attraverso i suoi rappresentanti, pur fallibili. Non desiderabile per loro in realtà, ma quello è. Qui abbiamo un punto cardine, ancora una volta, di quello che è la Chiesa vera, quella Apostolica, rispetto alle finte chiese nate dalla protesta.

-La Confessione, o Riconciliazione, qui affermata, che per questo è un Sacramento: un atto sacro in cui Dio si rende presente, e perdona.

E non in un’intenzione, o per modo di dire.
No, in un momento preciso, in un luogo preciso, attraverso una persona che ne è, pur indegnamente, il rappresentante; perché ha ricevuto lo Spirito Santo apposta. Con effetti soprannaturali. Scusate se è poco.
Anche qui, annotiamo! Per la volta che qualcuno se ne esca con stravaganze, tipo sacramenti inventati secoli dopo: per avere di che ribattere.

 

Si osservi: che proprio degli Apostoli si parla, e comunque di persone speciali scelte da Dio o delegate dagli apostoli, è anche abbondantemente chiaro riferendosi a 2Corinzi 5,18-20: San Paolo parla a nome dei pastori che chiama anche ambasciatori di Dio;

Dio, che ci ha riconciliati con sé mediante Cristo e ha affidato a noi il ministero della riconciliazione.

 

Ecco dunque che i due brani di Pentecoste assumono un ruolo davvero bello, e complementare:
dapprima Gesù dona lo Spirito ai suoi discepoli scelti, incaricati: perché perdonino e riconcilino a lui i fedeli;
poi lo Spirito scende sull’embrione della Chiesa, per dare un segno di chiamata, per tutti i fedeli, alla testimonianza e predicazione verso il mondo intero.

Diversità di carismi! Toh, proprio ciò di cui parla la Seconda Lettura.

 

Il miracolo

Per quanto riguarda il fragore, vorrei sommessamente far notare agli scettici che in occasione delle apparizioni di Fatima il cosiddetto Miracolo del Sole è avvenuto di fronte ad una grande folla, inclusi molti atei che dovettero testimoniare e confermare quanto visto, e in molti si convertirono. Siamo già nel Novecento, in un’epoca di scienza e scetticismo. Eppure il miracolo eclatante, scenografico, c’è stato. Direte “sembrava, ma ci sarà comunque stata un’altra spiegazione“… Beh, tanto non si è trovata, e dovete ammettere dunque che eventi così inspiegabili, in certe occasioni avvengono!
Mi volete dire perché, per quale caspita di motivo, qualcosa di altrettanto eclatante non potrebbe essere avvenuto in un momento ben più decisivo, quale la Pentecoste con gli Apostoli?
Non sto dicendo che so che il miracolo di Pentecoste è stato un fatto reale e di natura soprannaturale. Affermo invece, banalmente, che non potete atteggiarvi a quelli che non se la bevono, perché l’unico motivo per cui non volete crederci è che non credete in Dio, e il resto viene di conseguenza.
Quindi un conto è dire che l’esistenza di Dio effettivamente NON è provata da miracoli antichi, che per noi sono solamente riportati. Altro è dare per scontato che tali miracoli non siano avvenuti!

Veramente ci siamo abituati male, a pensare sempre che l’eventualità che le cose siano andate come raccontato rappresenterebbe un “chiedere troppo”!
Dobbiamo disintossicare la nostra prospettiva.

 

E il parlare le lingue, in cosa consisteva? Qui abbiamo un ampio ventaglio di possibilità: intanto nella ricostruzione più o meno fantasiosa a posteriori, che ingigantisca o deformi il ricordo dell’evento. E poi, anche sul momento, potremmo pensare a, in ordine dalla versione più triviale al miracolo più grande:

1. gente che farfuglia suoni, emette fonemi senza senso, ma che vengono a tratti benevolmente interpretati dai presenti come accenni di parole della propria lingua, parole che assomigliano;

2. un momento di massima chiarezza mentale degli Apostoli li porta a sfoderare il meglio delle loro conoscenze; scoprono in effetti di riuscire a farsi capire in varie lingue di cui conoscono i rudimenti, e alcuni forestieri qualcosa colgono e rimangono colpiti (l’elenco delle lingue viene poi miticamente esteso nei racconti successivi);

3. ottengono momentaneamente delle capacità extra, per cui riescono, senza sapere come, a parlare in varie lingue, dicendo qualche parola opportuna a ciascun gruppo di presenti (come un’udienza in Vaticano, con un susseguirsi di saluti e benedizioni per ciascun gruppo linguistico, ma senza aver mai studiato quelle lingue);

4. in qualche modo, pur continuando loro a parlare in aramaico, le persone che li ascoltano riescono a sentire, contemporaneamente, un discorso nella propria lingua.

E forse esistono ancora altre possibilità che mi sfuggono.

Vediamo, dunque.

Il caso 2 è il più stiracchiato, perché, per quanto ci si sforzi, non si colgono spunti così straordinari da qualche parola buttata lì da chi ha poche nozioni: siamo ad un tentativo di spiegazione che vorrebbe essere razionalista ma sta semplicemente arrampicandosi sugli specchi. Non è così che si origina un racconto di un fatto straordinario. Ci vuole qualcosa di più dirompente. Se al contrario si crede che il fatto sia stato gonfiato così tanto, sarebbe persino più semplice considerarlo inventato da zero e basta.

Il caso 4 non è che una versione particolare del caso 3, certo un po’ più eclatante. Nota mentale aggiunta, rimangono di fatto due sole alternative.

Il caso 1 è quello a cui credo pensino in tanti: un vaneggiare senza senso, fare versi strani, poi fantasiosamente reinterpretato.
Ebbene, lungi dall’essere una stravaganza, un’accusa malevola, o al contrario un segreto altarino da svelare, questo fenomeno, solitamente noto come glossolalia, è ben noto, diffuso e discusso, dentro e fuori la Chiesa.

L’alternativa, in cui invece davvero c’è chi parla lingue straniere senza averle imparate e si fa capire bene, è stata nominata xenoglossia. Fenomeno per definizione impossibile con mezzi naturali: per intenderci, mai avvenuto dal punto di vista degli scettici del CICAP.

Da capire ora: ogni considerazione su come il racconto possa essere stato deformato nel tempo, a partire dalle prime testimonianze, finisce a questo punto in secondo piano. Se era solo glossolalia, poi fraintesa, il miracolo si smonta da sé. Ed è talmente facile come alternativa, che non ha senso cercare altre versioni più improbabili, se si vuole non credere. Se al contrario era xenoglossia, niente da dire: c’è Dio, ed è Gesù.
Quindi abbiamo riportato tutto a questo bivio.

 

Glossolalia o xenoglossia?

Ed eccoci alla divagazione annunciata: che cosa c’entra il libro A piedi nella foresta del Borneo, di Eric Hansen?
Bene, questo Hansen scrive un resoconto scanzonato e stimolante, ricco di spunti, della sua traversata a piedi dell’isola indonesiana del Borneo, per 7 mesi, nel 1982. Immergendosi soprattutto nella cultura locale, più che semplicemente esplorare ed attraversare una foresta.
È dunque con un tranquillo distacco che contempla anche i pochi incontri con altri occidentali, inclusi alcuni missionari.
Ho ripescato il pezzo che mi interessava: curiosamente non si capisce se in quella pagina i missionari siano cattolici o protestanti, si parla infatti di messa ma non ne ha proprio i connotati: completamente assente l’Eucaristia. Comunque, ecco i punti salienti:

– la funzione religiosa con il gruppo di persone appartenenti al popolo dei penan comincia con un sermone che l’autore dubita qualcuno sia in grado di capire, per via della barriera linguistica.
– Comincia poi il momento della preghiera individuale, alla maniera dei missionari, cioè del popolo kelabit: implorazioni a voce alta, ognuno per conto suo e contemporaneamente, sovrapponendosi caoticamente. Un pandemonio.
– Una signora anziana ruba la scena: urla un numero elevatissimo di volte “Grazie, Signore” nella sua lingua, battendo le mani, in un crescendo.
– L’impressione dell’autore, ragionevole, è che sia spinta anche dalla volontà di dimostrare la propria fede attraverso l’intensità dello slancio. Come se volesse compiacere il pastore. Nel frattempo gli altri si placano, e lei continua, sudata e in lacrime.
Il pastore ora appare preoccupato, la messa è rovinata.
La donna improvvisamente cade sulla schiena ed inizia ad emettere suoni strani, in uno stato di trance. Hansen stesso ora è interessato, vuole sentire se sta parlando in qualche lingua (a lei) sconosciuta. Si protende per sentire meglio, ma non trova un senso a quei balbettii. Nessuno lo trova: non sono parole di una qualche lingua.
– Tutti si stringono a lei e cercano di confortarla.
– Va avanti per altri 5 minuti, poi smette, stremata.
– Il pastore si deterge la fronte e tira un sospiro di sollievo.

Hansen aggiunge che gli incontri con lo Spirito Santo in quelle popolazioni sono diventati molto popolari, di fatto sostituendo l’antica usanza di avere teste umane tagliate di fresco nella casa comunitaria, per “riscaldare” una spiritualità che si era raffreddata.
Persone “possedute dallo Spirito”, capaci di parlare le lingue e di guarire, secondo i penan.

Perché ho riportato questa storia?
Siamo ad un caso da manuale di glossolalia, e sarebbe davvero ingenuo credere che nasca dall’imposizione di missionari cristiani. C’è invece qualcosa di più primitivo, direi ancestrale, in questi sforzi. Sbuffando e tergendosi la fronte, questi uomini di Chiesa cercano di convogliare verso una spiritualità più ordinata quella che è una reazione ingenua, istintiva. Ma è anche un’esperienza; un modo, per quanto discutibile, di porsi soggettivamente in contatto con Dio. Non è forse vero, che ben oltre la preghiera piana e semplice, in molti popoli hanno ricercato la trance, anche sotto effetto di droghe, per spingersi più in là di una meditazione profonda?

Prima di guardare tutte queste cose con superba sufficienza, vi invito a riflettere su di un fatto oggettivo: il Cristianesimo ha portato a privilegiare una risposta razionale, sempre guardando con diffidenza le manifestazioni potenzialmente destabilizzanti ed irrazionali. Sono proprio i post-cristiani occidentali moderni, che hanno preso a rifiutare una religiosità fatta di dottrine e dogmi, per gettarsi con convinzione nella spiritualità orientale: mantra, meditazioni, tecniche. Un gigantesco come, esperienziale, emozionale, al posto del perché.
Non a caso i movimenti religiosi carismatici, in particolare nel Protestantesimo, nascono per andare incontro a questo tipo di desideri. “Non mi dare una dottrina, dammi un’emozione”, sembrano dire.
Non solo in tempi recenti: il movimento degli Shakers nasce nel Protestantesimo dei Puritani nel XVIII secolo come un gruppo (fatemi dire: di svitati) che tra le altre cose produce momenti religiosi caotici, pieni di gente che urla, si scuote tutta (da cui il nome shakers), emette suoni e parole incomprensibili. In seguito cercarono di… organizzarsi meglio (!), introducendo danze e canti coordinati.

 

Ora forse capite meglio la pena e la difficoltà di chi, pastore, si ritrova a dover mettere in riga pecore del genere. Che ne basta una e ti scombina tutti i piani.

Oltretutto chiarendo: un conto è voler fare un certo tipo di esperienza soggettiva emozionale, forte, ma al servizio di una fede che ha un senso ed un fondamento altrove. Altro sarebbe il convincersi di avere, personalmente, doni eccezionali, e di parlare veramente lingue nuove e sconosciute; magari avendo l’impressione di poter essere di guida agli altri, portando loro nuove rivelazioni dallo Spirito… mentre in realtà la persona dallo stato mentale alterato attinge rumore dai propri istinti primitivi.

Possono queste sceneggiate penose, che fanno inorridire chiunque non sia già dentro ad un gruppo auto-selezionato di amanti del genere, essere state davvero alla base di una esperienza straordinaria della Pentecoste, tanto da diventare uno dei momenti centrali della vita della Chiesa?
Io non lo credo. Siete certo liberissimi di pensarlo, ma quanto è ragionevole? No, perché è troppo facile proiettare la propria percezione di verosimiglianza su personaggi lontani, di cui sappiamo poco, e che possono facilmente diventare caricature, marionette nelle nostre mani.
Il sentimento grossolano di chi si percepisce superiore in quanto moderno, e in realtà conosce poco e niente, è proprio centrato sull’idea (pregiudizio) che un tempo fossero tutti dei gran creduloni, facilmente ingannati.

 

Vediamo invece come queste manifestazioni, tra il misticismo e l’isterismo, non venissero affatto accolte con favore dai capi della Chiesa nascente. Andiamo alla fonte, la Prima Lettera ai Corinzi (non molto più avanti rispetto al brano della Seconda Lettura): qui Paolo ammonisce, corregge, mette paletti, stronca.
Al capitolo 14, in particolare, si preoccupa del mettere ordine nelle assemblee, con specifico riferimento al cosiddetto dono delle lingue. Vi invito a leggere per intero ciò che scrive, che non riporto qui per non appesantire ulteriormente il testo.
Penso in molti, di fronte a quelle parole e alla luce di quanto detto finora, potrebbero convenire: ma guarda, questa mi è nuova, non l’avevo mai pensata così!

Paolo insiste a blandire chi trova, diciamo, giovamento dalla glossolalia, anzi ad un certo punto dice che lui lo fa come e più degli altri, ma non lo fa davanti agli altri. Ma il suo messaggio è chiaro: ci vuole chi parli nell’assemblea a nome di Dio (letteralmente: profeta), cioè chi porta il messaggio intelligibile del Vangelo, e che per forza di cose è superiore al’emettere suoni incomprensibili con sentimento.

 

Fratelli, non ragionate come bambini. […]

Se la comunità si riunisce, e tutti si mettono a parlare in lingue sconosciute, quando entrano degli estranei o dei non credenti, che cosa accadrà? Diranno che siete pazzi!

 

Paolo poi prosegue indicando una serie di restrizioni per contenere il fenomeno: nel numero di quelli che si danno alla glossolalia, nel dare loro possibilità di farlo solo se c’è qualcuno che fa da “interprete” e dice cose sensate senza esserne sovrastato; altrimenti, che stiano zitti e si tengano l’esperienza per sé!
Incastonato in questo discorso, pieno di esortazioni e regole disciplinari, anche con tratti di durezza, e che si conclude sottolineando due parole che gli stavano a cuore: dignità ed ordine

Ebbene, incastonato in questo discorso fa capolino il comando diretto alle donne: di starsene zitte in assemblea. Il che sembrerebbe strano. Paolo, si sa, ha una fama abbastanza meritata di misogino, ma che c’entrano le donne qui?

Proiettiamoci nella situazione. Gli apostoli e gli anziani sono tutti uomini, e non discuteremo qui di questa scelta, se non altro pastorale, ma è un fatto. Ho il sospetto che, anche per difficoltà ad esempio di impegni lavorativi degli uomini, oltre che per indole, anche allora fosse presente come oggi, ad una funzione tipica, un numero sproporzionato di donne (pensiamo anche al Cristianesimo che diventa ad un certo punto la moda delle ricche matrone romane, ma magari non dei loro mariti).
Donne abituate nella società esterna a non avere spazio, a non poter parlare; e spesso, direi, mantenute nell’ignoranza (certo, non per colpa loro, ma il risultato negativo è lì).
Donne che improvvisamente, in questa comunità che pure riconosce loro un valore nuovo, trovano un’opportunità: anche se di mio non oserei mai prendere la parola e mettermi ad insegnare ad un gruppo, invece nel caso in cui io senta lo Spirito che entra in me e mi fa proferire parole misteriose, beh, a quel punto non mi contengo, anzi, ci do dentro! Quella anzi diventa la mia esperienza religiosa preferita. Intensa, emozionale.
In altri termini non solo la situazione in queste congregazioni spesso sfuggiva di mano. Ma quasi sempre il caos fatto di urla, parole senza senso e versi disumani, era totalmente dominato dalle voci femminili, per numero ed intensità. Impedendo di insegnare.
Non è necessario essere maschilisti per comprendere il punto di vista di un pastore che ad un certo punto sbotta: “Donne, statevene zitte!”

Ecco, io rilessi questo passaggio dopo aver letto il diario di Hansen, e non potevo non vedervi una reazione allo stesso tipo di situazione: già una sola donna riesce a tenere in scacco tutta la celebrazione, solo perché si sente di fare questa parte.

 

Ora, davvero vorreste sostenere che da queste situazioni di caos sarebbe nata la tradizione della xenoglossia del giorno di Pentecoste?

Ma l’ultimo posto dove andare a pescare il cuore di un’esperienza di fede è proprio negli aspetti più deteriori, che si sta cercando di incanalare, comprimere, ridurre al minimo!
E infatti, proprio grazie a guide come il Paolo che abbiamo letto, il fenomeno pian piano va scomparendo, nelle celebrazioni della Chiesa Cattolica.

-Solo chi non capisce la pena di quei pastori, può sognarsi di pensare che trovassero bello inventarsi una circostanza come quella del miracolo di Pentecoste, dove l’invadenza molesta degli pseudocarismatici avrebbe potuto diventare il modello dell’essere Chiesa!

 

Notate oltretutto: da un lato Paolo dà voce alla Chiesa con la testa sulle spalle: se vi sentono degli estranei, vi prendono per pazzi. Dall’altra le circostanze del miracolo sono proprio il caso che più mette alla prova: una folla di estranei che arriva richiamata dal fragore, e non è minimamente preparata a quel che ha davanti, eppure ne è colpita favorevolmente, e riconosce la propria lingua.

Tutto è possibile, anche che una serie di incastri di circostanze ed equivoci abbia portato ad interpretare uno dei tanti episodi di glossolalia come fosse successo tutt’altro, rovesciando totalmente il senso delle reazioni della gente. Ma non mi sembra proprio verosimile, non rende conto della psicologia dei protagonisti; manca una spiegazione, un modo. Troppo facile dire “avranno gonfiato, inventato”. La profondità logica di una lingua non è qualcosa che si improvvisa blaterando: chi ascolta il correligionario in trance può tentare di immaginare si tratti di lingue sconosciute, ma mai vi riconoscerà una lingua vera, propria, e sconosciuta al parlante.

Ancora una volta, ciò che ad un’occhiata superficiale appare al massimo impossibile da valutare, se non risibile, se si approfondisce acquisisce credibilità: il miracolo della xenoglossia, spiegazione tutto sommato più semplice.
Più semplice per chi non parta dall’escludere i miracoli, visti come eventualità quasi impossibile.

 

Si dirà: ma xenoglossia e glossolalia sono due cose che si assomigliano troppo per non insospettire.

Eppure abbiamo un esempio chiaro che ci dimostra che questa somiglianza non dice niente, tantomeno che l’una sarebbe in realtà l’altra, fraintesa.
Torniamo infatti al miracolo di Fatima: migliaia di persone che vedono il sole cambiare colore e dimensione e muoversi rapidamente nel cielo. Certo non era il sole a fare queste cose, ma quale che fosse il fenomeno locale che avvenne alla presenza di tanti testimoni, si tratta se non altro di un caso notevole perché inspiegabile e documentatissimo.
Ma la storia non finisce lì: per imitazione, ogni volta che salta fuori qualche sedicente veggente, ecco qualche zelante seguace che si mette a fissare il sole senza protezione per gli occhi, credendo così di poter assistere ad un nuovo miracolo. Col risultato di diventare ciechi, o comunque di avere danni alla vista.
Ripeto: quale che sia la natura dell’evento di Fatima, non viene toccata o messa in discussione dalle imitazioni.
E vale anche per i miracoli il principio generale, in questo nostro mondo intrinsecamente corrotto: non si può astenersi da qualcosa, solo perché inevitabilmente ne esisteranno brutte copie che rifanno tutto in male.

Ecco dunque che, messo nella giusta prospettiva, il quadro si ricompone naturalmente: la glossolalia diventa un pallido tentativo di imitazione della xenoglossia.

Si aggiunga che in effetti, se per assurdo fissare lo sguardo sul sole non producesse alcun danno alla salute, la “Chiesa Ufficiale” di oggi sarebbe anch’essa abbastanza indulgente verso questa “esperienza”, che invece è logicamente trattata come una follia, visti gli effetti.

Dovrei a questo punto scusarmi: il tentativo di essere esaustivo, una volta per tutte, mi porta lontano dall’obiettivo di un messaggio chiaro, diretto, conciso. Farò meglio la prossima volta.

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