Pseudo-Omelie Di Un Laico -10- Pietro il Pastore

IV DOMENICA DI PASQUA – ANNO A

 

La liturgia di oggi, come spesso accade, viaggia su due binari paralleli: Gesù Cristo che ci parla attraverso una metafora ambientata nel mondo della pastorizia, e Pietro che, tra I e II lettura, prende il centro della scena come guida degli Apostoli, e quindi della Chiesa.

 

Mi domando: posto che nell’immediato parlare di pecore e pastori era un modo efficace per raggiungere l’uditorio, ha ancora senso per noi, che siamo sempre più lontani dal mondo rurale, dover ragionare attraverso queste metafore che ormai sanno di vecchio?

Non ho una risposta, però può darsi che proprio questo tipo di ancoraggi al passato, alle nostre radici, possa ancora svolgere una funzione, soprattutto in un futuro: si salva solo l’uomo che non schifa le stalle: che puzzano, e tanto. Che non schifa i prati ricoperti di ben note palline nere. Che non fugge la concretezza del contatto col mondo animale. Questo messaggio, in questa forma, contrasta la tentazione di un catarismo tecnologico, di una fuga in avanti. Come quelli che desiderano diventare loro stessi intelligenze artificiali, incorporee… e che non sanno trovare un valore nell’accettare la propria natura animale.

Chi non insegue la trasformazione, la singolarità del trascendere i limiti della nostra specie, si salva non tanto nel senso di guadagnarsi il Paradiso: piuttosto di non perdersi già nella vita; non annullare il senso di chi chi siamo e cosa facciamo.

 

Siamo pecorelle, e non sempre simpatiche e coccolose, anzi.
Siamo pecore anche nell’essere stupidi. Dobbiamo riconoscere i nostri limiti: abbiamo bisogno di andare dietro ad un pastore. E se non lo facciamo ci perdiamo. Magari seguiamo tranquillamente il lupo, finché non ci mangia.

 

A proposito di pastori:

Gesù è il Buon Pastore, questo lo sappiamo tutti. Eppure nella lettura di oggi dice altro.
Gesù dice “io sono la porta delle pecore”. Fornisce questa spiegazione a quelli che non avevano capito. E noi pensavamo di aver capito ed invece ci spiazza!
Non è il pastore, è la porta.

Certo, le metafore possono servire in modi diversi in circostanze diverse. Non viene invalidato il concetto di Buon Pastore.
Ma qui la chiave di lettura diventa: nel venirci incontro, nel recuperare la pecorella smarrita; nell’accudirci e proteggerci, nel guidarci… ci sono più strade. Percorsi simili,  che magari passano attraverso una persona delegata.
Gesù è il Pastore. Ma è anche la Porta da cui passano altri pastori: che devono rappresentarlo.
La porta è un elemento necessariamente statico.

Anche qui quindi ritroviamo il concetto, ostico per molti protestanti specialmente moderni, della necessità della mediazione. Gesù nella nostra vita è fermo, immobile come una porta: non posso pretendere che mi appaia, che compia un miracolo per me personalmente, per avere un’interazione umana e perché mi guidi visibilmente.
Quello che mi viene da Gesù è un insegnamento, un obiettivo, una storia che va al cuore, tante cose… ma in una religiosità personale ed intimistica, stile Born Again Christian, manca la persona concreta che viene da me, si china sui miei problemi, mi ascolta, mi ammonisce, mi mette in contatto anche fisico con Dio nei Sacramenti…

Abbiamo un bisogno disperato di pastori, uomini concreti, che passino attraverso Gesù Cristo e da nessun’altra parte.

E abbiamo bisogno di Pietro: anche i pastori vanno guidati.
Di Pietro che prende la parola e proclama Cristo, sparendo quasi sullo sfondo.
Nella Prima Lettura rende testimonianza a Gesù partendo dal mettere il popolo di fronte al proprio peccato, l’averlo crocifisso, e promettendo la salvezza attraverso il battesimo (schema: problema-soluzione; va a Cristo e passa attraverso il dono dello Spirito e il Sacramento).
Nella Seconda Lettura ci porta l’esempio del Cristo da seguire, tra l’altro nel sopportare la croce e nel porgere l’altra guancia. Ed è lui, Lui (!) che ci salva. Non può non essere il centro del discorso: Cristo e nient’altro.

Non possiamo avere pastori secondo la loro coscienza, araldi del secondo me.
Se un prete ci parla di solidarietà, impegno, accoglienza, coraggio, creatività, giustizia sociale, custodia del creato, migranti, razzismo, diversità, inclusività… è estremamente probabile sia un pessimo prete; uno che probabilmente avrebbe fatto meno danno a diventare un impiegato comunale, sposare una sciampista e crescere un paio di indisciplinati frugoletti (con tutto il rispetto per le sciampiste).

 

 

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